Ritagli

Scrivere per un quotidiano significa scrivere pezzi inevitabilmente destinati a finire nella carta straccia dopo poche ore. Ecco allora una piccola selezione dei miei articoli apparsi dal 2003 ad oggi su Libero, perché almeno di qualcuno, dopo tanto lavoro, possa restare traccia...


29 marzo 2005
Date, treni, vaccini. Sbagliare con Orgoglio

Inesattezze, incongruenze, anacronismi. In una parola: errori. Dall’orologio al polso di Charlton Heston in “Ben Hur” all’appellativo di ispanico (anziché iberico) ne “Il gladiatore”, la storia del cinema annovera una quantità (e una varietà) innumerevole di piccole sviste ed epiche cantonate. Ma non crediate che la televisione sia da meno, soprattutto quando si tratta di grandi sceneggiati in costume. Come “Orgoglio – capitolo secondo”, campione tanto d’ascolti quanto di errori. Per gustarsi tutte le imprecisioni presenti nel copione del kolossal della Titanus, vale la pena di ricostruire il contesto in cui si svolge la vicenda. L’amore contrastato tra la marchesa Anna Obrofari e il contadino Pietro Pironi ha come teatro una località imprecisata della campagna romana (nella realtà villa Obrofari è il Palazzo Chigi di Ariccia). L’anno invece è noto: il personaggio della principessa Maria Pia è appena scomparso nell’affondamento del Titanic, dunque siamo senza dubbio alcuno nel 1912. Conviene tenerlo presente, perché la maggior parte degli errori dello sceneggiato di Raiuno sembrano non tenere conto dell’epoca storica. Se infatti Tommaso, il fratello di Pietro, non sarebbe potuto andare a studiare veterinaria a Roma neppure al giorno d’oggi, visto che nella capitale la facoltà di veterinaria non c’è mai stata, quasi tutte le altre sviste sono anacronismi. Quando ad esempio Anna teme di aver contratto il vaiolo, Pietro lascia intendere che non c’è modo di sconfiggere la malattia. Affermazione corretta, se però la storia fosse stata ambientata qualche decina d’anni prima: scoperta nel 1796 dal medico inglese Edward Jenner, all’epoca dei fatti la vaccinazione contro il vaiolo sarebbe infatti dovuta essere una prassi da quasi un quarto di secolo, essendo diventata obbligatoria con la legge Crispi-Pagliani del dicembre 1888. Le distanze sono poi pressoché annullate in tutta la serie. Appurato che la vicenda si svolge nei dintorni di Roma, che dire del fatto che Anna accompagna Armando alla nave per l’Africa - e che il geloso Pietro li raggiunge prontamente (si badi bene: in calesse anziché in treno) - quando a quel tempo il porto d’imbarco per il continente nero era nella migliore delle ipotesi quello di Civitavecchia (distante da Roma 80 chilometri), se non addirittura quello di Napoli (a 192 chilometri)? Quando poi si verifica un’esplosione nella miniera di carbone dove lavora Antonio, Pietro e il padre si precipitano in Sardegna partendo a brevissima distanza l’uno dall’altro - come se i traghetti salpassero a ritmo continuo - e Pietro arriva a bordo di un carretto preso presumibilmente in affitto, ma chissà quando e chissà dove. «Su tredici puntate può accadere che si commettano degli errori», ammette Maria Venturi, autrice del soggetto, mentre Gianfranco Clerici, che ha firmato la sceneggiatura con Daniele Stroppa, è consapevole che «in qualunque film e sceneggiato ci sono errori, sono quasi inevitabili». «Noi cerchiamo di non commetterne documentandoci molto», continua Clerici, «ma a volte capita di sbagliare, per distrazione nostra o magari perché un attore modifica una frase. È il caso della battuta di Pietro sul vaiolo, cambiata probabilmente sul set, durante le riprese. La facoltà di veterinaria è invece, diciamo, una licenza poetica: in fondo Tommaso va a studiare veterinaria, non è specificato che vada all’università…». Quanto alle incongruenze spazio-temporali, «la colpa è del montaggio: probabilmente tra la partenza di Pietro per la Sardegna e quella del padre c’erano delle scene intermedie, che sono poi state tagliate per dare maggiore ritmo alla narrazione, col risultato che le due partenze sono sembrate quasi contemporanee». Quali ne siano le cause, resta il fatto che di errori in “Orgoglio” ce ne sono, e tanti. Ma forse non è poi così grave: in fondo rintracciarli può essere divertente per il telespettatore. D’altronde, gli sceneggiatori sono uomini. E, si sa, errare humanum est.

20 luglio 2007
Luoghi di fantasia. Bocciate in geografia le fiction della tivù

Il caratteristico porto di Capri, i vicoli antichi di Napoli, lo spettacolare mare della Grecia: tutti luoghi che le fiction hanno contribuito a farci amare... facendoci però vedere altri posti. Serie e miniserie italiane sono in fatti piene zeppe di “falsi geografici”, per la cattiva abitudine dei produttori – motivata spesso da questioni di budget – di scegliere per le riprese location che poco o nulla hanno a che fare con l'ambientazione delle storie raccontate. Prendiamo il caso di “Capri”, la serie di successo di Raiuno interpretata da Gabriella Pession e Sergio Assisi, di cui tra breve si comincerà a girare la seconda stagione: pensate che i paesaggi che fanno da sfondo all'amore tra Vittoria e Umberto appartengano tutti alla perla del golfo di Napoli? Neanche per sogno: se escludiamo la mitica “piazzetta”, Marina Grande e il faro di Punta Carena ad Anacapri, tutti – o quasi – gli altri luoghi della fiction si trovano in realtà sulla terraferma, distribuiti tra la penisola sorrentina e la costiera amalfitana. Si trova ad esempio a Vietri sul mare la roccia dalla quale Umberto in una delle puntate si è lanciato in un atletico tuffo per riconquistare la sua bella, sorge nella vicina Raito la pittoresca Villa Guariglia che nella finzione è Villa Isabella, la splendida Grotta Smeralda è uno dei gioielli della baia di Conca dei Marini, a 5 km da Amalfi, mentre il borgo dove vive Carmelo il barcaiolo è il porticciolo di Marina della Lobra a Massa Lubrense. Sorrento, poi, ha fornito alla serie di Raiuno Marina Piccola, che i produttori ci hanno fatto passare per il porto di Capri, l'albergo a picco sul mare che è diventato l'Hotel Scapece e quello ben più antico – l'Hotel Tramontano, casa natale di Torquato Tasso – che per esigenze di sceneggiatura si è trasformato nella sede del municipio. Delusi dalla scoperta che Capri non è Capri? Lo sarete forse ancora di più nell'apprendere che la romantica Parigi degli anni Cinquanta nella quale “Il commissario Maigret” interpretato da Sergio Castellitto svolgeva le sue indagini era in realtà Praga, così come la Napoli del Settecento dove “Elisa di Rivombrosa” andava a cercare il suo bel tenebroso Christian nella seconda stagione della serie di Canale 5 altro non è che il centro della cittadina pugliese di Otranto. Ma non è finita qui: la miniserie con Kim Rossi Stuart “Il tunnel della libertà”, ambientata nella Berlino degli anni Sessanta, è stata girata a Budapest; le riprese di “Cefalonia”, con Luca Zingaretti e Luisa Ranieri, non sono state effettuate sull'omonima isola greca bensì a Scopello, una delle più belle località costiere della Sicilia; la base Maestrale e le diverse città irachene dove si sono svolti i fatti ripercorsi nelle due puntate di “Nassirya, per non dimenticare” sono state interamente ricostruite in terra di Puglia. Per tante fiction “ingannatrici”, ce n'è però almeno una che va controcorrente, utilizzando come set le giuste location anche se la sceneggiatura non fornisce in proposito indicazioni precise. Stiamo parlando naturalmente de “Il commissario Montalbano”: nonostante Andrea Camilleri abbia battezzato con nomi di fantasia le città che fanno da cornice alle indagini del suo personaggio più famoso, la Palomar di Carlo Degli Esposti ha girato la serie interamente in Sicilia, a Ragusa Ibla e dintorni. E poco importa, in fondo, che lo scrittore abbia creato Vigata pensando alla sua Porto Empedocle e Montelusa pensando ad Agrigento: di fronte a ben più gravi “falsi geografici”, sviste di questo tipo tutto sommato sono facilmente perdonabili.

 21 novembre 2008 
"Doc West". Il cowboy Terence in casa di Eastwood

Il cigolio delle ruote di una carrozza che avanza spedita sul suolo polveroso, lo scalpitio degli zoccoli di cavalli al galoppo, lo scricchiolio delle porte del saloon. Se non fosse per Giulio Base, che di tanto in tanto grida a gran voce: «Action!», si avrebbe davvero l’impressione di essere saliti su una macchina del tempo ed essere finiti nel Vecchio West, nell’ultimo quarto del XIX Secolo. Siamo invece, semplicemente, a Bonanza Creek, otto miglia a Sud di Santa Fe, dove da circa un mese e mezzo si sta girando “Doc West”, la miniserie destinata a Mediaset che segna il ritorno di Terence Hill al genere che l’ha reso famoso, a quindici anni da quel “Lucky Luke” che sembrava dovesse essere il suo ultimo film western. Eppure, vedendolo in sella a Casey, lo splendido frisone nero cavalcato da Banderas in “Zorro”, tutto si direbbe, tranne che da allora siano trascorsi tre lustri: con il cappello a testa larga in testa, il fazzoletto annodato al collo, il lungo soprabito e il cinturone da pistolero, l’attore sembra addirittura più giovane – e senza dubbio è più fascinoso – di quando indossa la tonaca in “Don Matteo”. «Quando fai il western c’è questa energia che ti viene non si sa da dove», è la spiegazione che Terence fornisce a chi gli fa notare la sua splendida forma. Non c’è che dire: questo è davvero il suo mondo. Tanto che, nelle sue intenzioni, la prossima stagione della fiction di Raiuno dovrebbe essere l’ultima, mentre questa potrebbe avere un seguito. «Da bambino volevo fare il cowboy, ho cominciato ad andare a cavallo a 12 anni», racconta, e non si stenta a crederlo, osservando con quale disinvoltura si lancia al galoppo, in una scena nella quale deve fermare la corsa folle di un cavallo imbizzarrito che si trascina dietro un povero disgraziato. «Avevo da tanto tempo il desiderio di rifare un western», confessa, «ma c’era un handicap: dopo “Il mio nome è Nessuno” e “Trinità”, non si poteva fare un altro film all’altezza, bisognava trovare un soggetto diverso, un personaggio che avesse un passato e perciò potesse interessare il pubblico». Quel personaggio alla fine l’ha trovato: un ex dottore diventato pistolero e grande giocatore di carte, oppresso dai sensi di colpa per non essere riuscito anni prima a salvare la vita ad una donna, che si riscatta tornando ad esercitare la professione medica. «Questo non è un western storico come se ne fanno oggi, è più una favola, un western per famiglie», spiega, precisando che «non si ride come in “Trinità”, ma si sorride». Oltre ad essere il protagonista della serie, Terence Hill ne è anche il regista insieme a Giulio Base. Per un semplice motivo: «Base è un grande professionista, sa lavorare molto bene sui personaggi e riesce sempre ad essere nei tempi ma nessuno oggi conosce il genere e quindi ho chiesto di poter dare una mano». Tra i personaggi fissi dei due episodi, che raccontano due storie distinte e dovrebbero andare in onda su Canale 5 in primavera, c’è lo sceriffo Basehart, interpretato da Paul Sorvino. «Non avevo mai fatto un western ma da bambino li adoravo, soprattutto quelli terribili di serie B», racconta l’attore newyorkese, vera anima del set con quelle sue arie d’opera, intonate durante le pause con voce tenorile, e con la salsa al pomodoro che ha voluto cucinare personalmente, per ricordare a tutti le sue origini napoletane. Presenza fissa è anche Denise Stark, alias Clare Carey, la maestra del paese che riuscirà a fare breccia nel cuore di Doc West. Nel cast spicca inoltre Ornella Muti: la vedremo solo nel secondo episodio, nei panni di una giocatrice d’azzardo, vecchia fiamma dello sceriffo, molto abile nel barare. Complessivamente, sul set si muovono oltre 150 tra attori e comparse, 45 cavalli e un nutrito team tecnico composto soprattutto da americani, che vanta professionisti di grande fama come Neil Summers, capo stuntman in un’infinità di film western e non solo, e Sled Reynolds, addestratore tra i più famosi del cinema americano (è stato lui ad “insegnare a recitare” al lupo Due Calzini di “Balla coi lupi”, alle tigri de “Il gladiatore” e ai leoni de “La mia Africa”). «Quello che vorrei che emergesse è che ci stiamo mettendo il cuore», commenta Guido De Angelis, produttore del film, «è un progetto di grande qualità. Per me questo è cinema, non televisione, tant’è che negli Stati Uniti “Doc West” andrà sul grande schermo». Girata in pellicola Super 35 mm, interamente in inglese e in presa diretta, la serie è costata 8 milioni e mezzo di euro ed è una vera scommessa. Riuscirà “Doc West” a vincere questa partita? Di certo, non ha bisogno di barare.

24 ottobre 2010
"The walking dead" su Fox. L'invasione degli zombie

Preparatevi ad un mondo popolato di zombie: stanno per irrompere nelle nostre case. Dal 1 novembre, ad appena 24 ore dalla messa in onda americana, Fox (canale 110 di Sky) trasmetterà infatti in esclusiva, ogni lunedì alle 22.45, i 6 episodi di “The Walking Dead”, la prima serie tv su un fenomeno tutto cinematografico: i morti viventi. Tratta dall’omonimo fumetto di Robert Kirkman, scritta e diretta da Frank Darabont (regista che ha collezionato ben tre nomination all’Oscar) e prodotta dal network a stelle e strisce AMC, questa avvincente serie horror – la cui prima puntata è già online su BitTorrent, manco a dirlo - ha per protagonista un poliziotto di provincia, interpretato dall’inglese Andrew Lincoln, che al risveglio dal coma si ritrova catapultato in una realtà post-apocalittica dove quasi tutti gli uomini sono stati trasformati in cadaveri affamati di carne umana, all’infuori di pochi superstiti che si sono uniti per non soccombere. «Penso che gli zombie siano diventati molto popolari negli ultimi tempi, con film come “Zombieland”, “28 giorni dopo” e “Io sono leggenda”, e non siano più considerati un genere di serie B», spiega a “Libero” la produttrice esecutiva Gale Anne Hurd (che in passato ha legato il proprio nome a blockbuster come “Terminator” e “Aliens”) in occasione dell’anteprima londinese per la stampa, «attraverso di loro possiamo mettere i nostri personaggi in situazioni che ci fanno esplorare la lotta per la sopravvivenza». «Questa è una serie sulle persone e non sugli zombie, che sono solo la scusa per consentirci di raccontare cosa succede agli uomini in condizioni così estreme da dover fare cose impensabili per restare in vita», ribadisce l’attrice Sarah Wayne Callies, ammettendo delle similitudini con “Lost” nelle dinamiche interne al gruppo di sopravvissuti anche se «lì i personaggi si trovano in un'isola che non conoscono, mentre qui ci sono persone che vivono nel loro mondo che però è cambiato, non c'è più elettricità, non c'è il fuoco... è un po' un ritorno alla preistoria». «La prima reazione, quando ho letto il copione, è stata la sorpresa, perché prima d'allora non avevo mai visto niente di questo tipo», racconta Lincoln, convinto che non si rischi l’effetto splatter perché «dipende dai gusti, alcuni penseranno che c'è troppo sangue, altri che ce n'è troppo poco». «Credo che la televisione, essendo uno schermo piccolo, non venga “travolta” dal sangue, anche perché si vede ogni volta solo per pochi secondi e in alcuni episodi addirittura non ce n'è», interviene la Hurd, spiegando che «dovevamo far vedere che in questo nuovo mondo gli zombie sono pericolosi e che l'unico modo per ucciderli è sparare loro in testa». Rispetto ai fumetti di Kirkman, pubblicati in Italia da Saldapress, la serie si concentra però solo su alcuni personaggi, perché chi già conosce la storia «non sappia necessariamente chi vive e chi muore», lasciandone da parte molti altri che potrebbero entrare in scena nella seconda stagione. Anche se, lascia intendere la produttrice, prima di pensare al sequel bisogna aspettare il responso del pubblico. Ma ora è l’attesa è finita: una settimana appena e l’invasione degli zombie avrà inizio. Si salvi chi può.

12 giugno 2007
Rai, il cimitero delle sit-com

“Camera Café”, “Love Bugs”, “La strana coppia”, “Buona la prima”: sono tutte sit-com di Italia 1 che hanno dato a Mediaset grandi soddisfazioni in termini di ascolti, con medie (o quantomeno picchi) spesso di gran lunga superiori al 10% di share. Eppure programmi di questo tipo non riscuotono su tutti i canali lo stesso successo. Sulle tre reti Rai, ad esempio, questo genere televisivo non funziona proprio; nonostante l’ostinazione della tv di Stato, che periodicamente tira fuori dal cilindro qualche nuovo titolo da proporre al suo pubblico, con risultati più o meno disastrosi. L’ultimo, in ordine di tempo, è “Colpi di sole”, surreale sit-com “politically uncorrect” ambientata nel salone di un parrucchiere per signora che Raitre ha voluto mettere in palinsesto nella fascia dell’access prime time nel fine settimana estivo con lo scopo dichiarato di avvicinare i telespettatori più giovani, incurante del fatto che lo scorso anno, proprio in questo periodo, un esperimento analogo - “Buttafuori”, con Valerio Mastandrea e Marco Giallini - ha racimolato ascolti molto deludenti, oscillanti tra il 5% e il 7% share. Risultato: il nuovo prodotto all’esordio ha superato a malapena il 5% di share e la settimana successiva ha fatto ancora peggio, scendendo al 4,74%. Le cose d’altro canto non vanno molto meglio su Raidue, dove sono attualmente in onda ben due sit-com: “Piloti”, con Enrico Bertolino e Max Tortora, e “Andata e ritorno”, ambientata a bordo di un treno metropolitano. Se infatti la prima riesce comunque, sia pure arrancando, a scongiurare la chiusura anticipata (dei tre episodi trasmessi quotidianamente, il primo raggranella appena il 3% di share ma l’ultimo si mantiene sul 7-8% di media), la seconda fatica ad arrivare al 5% e il suo destino appare quanto mai vacillante. Per tentare di risollevarne le sorti, un paio di settimane fa è stato tentato, come ultima carta, anche l’esperimento del “cross over”, ossia il trasmigrare di un personaggio da un titolo all’altro come accade spesso nelle serie tv americane: la hostess Giorgia, una dei pendolari fissi di “Andata e ritorno”, è scesa dal treno per salire sull’aereo pilotato da Bertolino e Tortora, nel tentativo di avvicinare il pubblico della sit-com più seguita a quella con meno appeal. E Raiuno sfugge forse alla regola? Nemmeno per sogno. La rete ammiraglia è caduta in fallo a luglio dello scorso anno con “Cotti e mangiati”, produzione Magnolia (la stessa di “Camera Café”) con Flavio Insinna e Marina Massironi nei panni di una coppia sposata, lui romano conservatore e privo di senso estetico, lei milanese elegante e progressista, alle prese con le situazioni più svariate della vita quotidiana: in quel caso gli ascolti sono stati molto più alti rispetto agli altri titoli, ma il 17% nell’access prime time, per giunta contro il seguitissimo programma di Canale 5 “Cultura moderna”, è sembrato troppo poco per mantenere la programmazione inalterata; e così la sit-com è stata opportunamente spostata al daytime - prima alle 14.00 dove ha peggiorato ulteriormente, scendendo fino al 9%, e poi alle 17.00, dove almeno è risalita al 17% - sostituita nientemeno che dal solito “Supervarietà”. Insomma, le sit-com sui canali Rai non hanno fortuna: i direttori di rete farebbero bene a farsene una ragione... e magari, prima di mandarne in onda altre, a fare qualche indagine di mercato per capire meglio i gusti del loro pubblico.

30 marzo 2010
Antonella straripa. Il suo show più forte di Io canto. E non censura la parola sesso
  
Provate a canticchiare “Solo una volta (o tutta la vita)” di Alex Britti: “Il tempo va/passano le ore e finalmente sarà vero amore/solo una volta o tutta la vita/ speriamo prima che l’estate sia finita/ il tempo va/ passano le ore/ vorrei poter non fermare il rumore/di questa notte ancora da capire”... Notato qualcosa di strano? Ebbene sì, le parole sono state cambiate: i corsivi sostituiscono rispettivamente faremo l’amore e lavare l’odore. Ecco, questo è il testo che il cantautore è stato costretto a cantare sul palco di “Io canto”, qualche settimana fa. Nel programma di Canale 5 è stato censurato anche un altro suo successo, “Oggi sono io” – la versione edulcorata recitava “è squallido provarci/senza amore e senza affetto (anziché solo per portarti a letto) [...] spero più che posso/che non sia soltanto adesso (a posto di sesso) – mentre il ritornello di “Tanti auguri” di Raffaella Carrà è diventato “come è bello far rumore da Trieste in giù”. Perché queste censure? Per evitare che i baby cantanti pronunciassero frasi “scandalose” per la loro età, pare. Eppure nella prima puntata di “Ti lascio una canzone”, sabato sera, Claudio Baglioni ha potuto interpretare serenamente “Questo piccolo grande amore” senza rinunciare a “far l’amore giù al faro” e Valerio Scanu, con la quattordicenne Roberta Delia, ha eseguito “Per tutte le volte che” senza omettere la parola “nudi” e ribadendo di “far l’amore in tutti i modi, in tutti i luoghi, in tutti i laghi”. Il programma della prima rete Rai è dunque da criticare? Tutt’altro. Piuttosto, la scelta di “Io canto” è parsa un’ipocrisia bella e buona, perché è chiaro che quegli stessi ragazzini hanno canticchiato chissà quante volte i brani nella loro versione originale (senza considerare che l’età della “prima volta” si è abbassata a tal punto, che molti dei cantanti in gara l’hanno già superata...). Lo show condotto da Antonella Clerici è sembrato insomma più realistico, più “naturale”. Anche nella scelta dei piccoli protagonisti, che quest’anno non sono dei “mostri” – in senso buono, s’intende – come quelli selezionati da Roberto Cenci (avete presente la italo-filippina Zendryll Lagrana, che canta come Whitney Houston?), ma dei talenti più “normali”, nei quali il pubblico può riconoscere il proprio figlio o la propria nipotina. Ecco, forse è proprio questo il segreto del successo della nuova edizione della trasmissione di Raiuno, che ha esordito sabato sera con un ascolto pazzesco (il 33,19% di share e oltre sette milioni di spettatori), stravincendo sul concorrente di Canale 5 “Lo show dei record” (seguito da 3.600.000 persone, pari al 18% di share) e, soprattutto, superando di parecchi punti il programma-clone proposto nelle settimane scorse dall’ammiraglia Mediaset, che in nove puntate ha fatto registrare una media d’ascolto del 24,5% di share con cinque milioni e mezzo di spettatori (dati comunque molto buoni, tant’è che il direttore di rete, Massimo Donelli, ha già annunciato una nuova edizione). E pensare che la Clerici temeva la stanchezza da parte del pubblico...

24 maggio 2009
Cesaroni come Beautiful. Resurrezioni e parti lampo, follie da Garbatella

Finalmente Eva e Marco ce l’hanno fatta, a tornare insieme. Come sanno bene gli oltre otto milioni di telespettatori che lunedì hanno seguito il gran finale de “I Cesaroni 3”, i due ragazzi sono riusciti a dichiararsi il reciproco amore, coronato dalla nascita di una bimba che, colpo di scena, si scopre essere non di Alex ma proprio di Marco. Per una volta, diversamente da come era accaduto nelle due precedenti stagioni, la storia non è insomma rimasta sospesa ma si è conclusa, per giunta con un happy end che sembra sottintendere che “vissero tutti felici e contenti”. Ma non finisce qui, direbbe Corrado. Mai come quest’anno, la serie è stata infatti una mano santa per Canale 5, con i suoi 6.959.000 fedelissimi e il 27,9% di share (40,2% nell’episodio finale), e la gallina delle uova d’oro non si può lasciar morire. Nel complimentarsi con tutti quelli che hanno contribuito a questo successo, il direttore della Fiction Mediaset Giancarlo Scheri ha quindi annunciato che la quarta stagione è già in scrittura. Ma cosa potrà accadere ancora? Difficile dirlo, anche perché gli sceneggiatori della Publispei dovranno tener conto del fatto che sia Elena Sofia Ricci che Alessandra Mastronardi sono stanche di interpretare i loro personaggi, anche se la più giovane pare abbia acconsentito a rimanere se gli sviluppi della storia dovessero essere credibili. E questo è il guaio. Perché già quest’anno il copione era pieno zeppo di trovate al limite dell’inverosimile e del ridicolo. Pensiamo allo spogliarello di Giulio, Cesare e Ezio per racimolare i soldi necessari ad impedire la costruzione di un centro commerciale alla Garbatella. Oppure a Stefania che rinuncia a fare la scrittrice, con un best sellers all’attivo, per rimanere preside a scuola. O ancora Pamela che, creduta morta da tempo, per non spaventare Cesare sceglie di riapparire chiedendo ad un’amica di fingersi medium (vuoi mettere come è meno inquietante vederla arrivare nel bel mezzo di una seduta spiritica?). E che dire di Alice? A 13 anni non solo è cubista in discoteca con minigonna vertiginosa, parrucca platinata e una mascherina che la rende irriconoscibile perfino ai suoi amici più cari, ma ad un certo punto comincia ad uscire con un architetto trentenne senza che chicchessia faccia presente a lui che potrebbe essere arrestato con l’accusa di pedofilia. Ma il top si è raggiunto nell’ultima puntata, con Lucia e Giulio dall’agente immobiliare due ore prima del matrimonio di Eva, Rudi e Alice in ospedale perché lui non riesce più a sfilarsi le fedi dalle dita (quando sarebbe bastato un po’ di sapone, lo sanno tutti) e infine Eva che, dopo aver dato alla luce con un parto naturale – solo grazie all’arrivo di Marco – una bimba che si presentava in posizione podalica, scopre solo allora che la figlia non è prematura ma è stata semplicemente concepita prima del previsto (ma le ecografie e le analisi del sangue non le ha mai fatte, in gravidanza?!?). Insomma, continuando così, “I Cesaroni 4” rischiano davvero di cadere nel ridicolo. Ma ora Eva e Marco sono finalmente insieme. E a molti, credetemi, basta questo.

6 novembre 2007
Scelte suicide. Cambiano i volti, la fiction va giù

Il conte Fabrizio Ristori e signora si staranno rovesciando nella tomba, nella tenuta di Rivombrosa che fu scenario del loro amore travolgente: la loro unica figlia Agnese ha infatti dilapidato in una sola sera il sostanzioso lascito di telespettatori avuto in eredità dai defunti genitori, conservandone per sé appena 3.828.000. Scherzi a parte, è stato un duro colpo per Canale 5 lo scarso risultato della puntata d'esordio della serie “La figlia di Elisa-Ritorno a Rivombrosa”, con la quale l'ammiraglia Mediaset sperava di sbaragliare la concorrenza e che invece domenica sera ha racimolato appena il 17,17% di share. Il pubblico, che già aveva dimostrato di non gradire l'uscita di scena di Fabrizio Ristori-Alessandro Preziosi e l'arrivo al suo posto del tenebroso ufficiale della marina inglese interpretato da Antonio Cupo (rispetto alla prima, la seconda stagione della fiction aveva perso oltre due milioni di spettatori, da 8.231.000 a 5.975.000, e quasi otto punti percentuali, passando dal 30,46% al 22,69% di share), l’ha insomma fatto capire chiaramente: senza la Puccini non c'è Elisa. Come senza Preziosi non c'è "Il capitano", d'altronde: con Giampaolo Morelli nuovo protagonista, la serie sulle Fiamme Gialle - che nel 2005 fece registrare oltre cinque milioni di spettatori e il 18,24% di share, una media di tutto rispetto per Raidue – ha perso vistosamente appeal, arrivando a totalizzare appena 2.729.000 spettatori, poco più dell’11% dell’intera platea televisiva. Evidentemente il “cambio della guardia” non giova alla fiction. E infatti pure “Gente di mare”, premiata un paio di anni fa da ampi consensi (6.758.000 spettatori e il 26,94% di share), con l’abbandono di Lorenzo Crespi ha visto precipitare gli ascolti – arriva ora a raggranellare appena il 19,62% di share, con una media di 4.829.000 spettatori – nonostante al suo posto sia stato chiamato un belloccio come Fabio Fulco che nulla ha da invidiare al suo predecessore. Il fatto è che il pubblico si affeziona facilmente ai personaggi e non sopporta di vederli andare via: uscito di scena il protagonista, o il suo storico partner, per molti la serie è finita. A Diego Abatantuono, alias “Il giudice Mastrangelo”, è bastato ad esempio perdere Amanda Sandrelli, rimpiazzata da Alessia Marcuzzi, per lasciarsi indietro un milione e mezzo di spettatori (da 5.486.000 a 3.989.000, con un calo di share dal 21,60% al 17,32%), così come i “Carabinieri” di Canale 5 con l’uscita di scena di Manuela Arcuri e l’arrivo proprio della Marcuzzi sono passati da 6.816.000 a 6.608.000 spettatori (ovvero dal 26,37% al 24,87% di share), calando ancora con l’arrivo di Walter Nudo (4.921.000 spettatori e il 21,15% di share). Infine, c’è il caso “Distretto di polizia”: nonostante continui ad essere vincente, la serie “cult” di Canale 5 è scesa al suo minimo storico, con “appena” il 23,35% di share media e 5.506.000 fedelissimi. Colpa forse di Massimo Dapporto, subentrato quest’anno a Giorgio Tirabassi? Difficile dirlo, ma c’è chi è convinto di sì.

16 ottobre 2010
Edda Ciano e il comunista. In tv l'amore proibito tra la figlia del Duce e un partigiano

Un uomo, una donna e il loro amore impossibile. Semplificando in maniera estrema, è questo che racconta il film tv che il regista Graziano Diana sta finendo di girare alle Eolie, prodotto dalla Casanova Multimedia di Luca Barbareschi per RaiFiction e interpretato da Alessandro Preziosi e Stefania Rocca. Ma se quell’uomo e quella donna sono un partigiano fieramente antifascista e la figlia prediletta di Benito Mussolini, allora il discorso cambia del tutto e la trama diventa davvero avvincente e struggente al tempo stesso. “Edda Ciano e il comunista”, questo il titolo del tv-movie – lo stesso del libro di Marcello Sorgi al quale si ispira, pubblicato lo scorso anno da Rizzoli con il sottotitolo “L’inconfessabile passione della figlia del Duce” - racconta fatti intimi, privati, che si sono svolti nell’arco di appena un anno, mentre l’Italia era impegnata nella ricostruzione post-bellica, e per questo mai contemplati dai saggi di storia. Se infatti la miniserie della Lux Vide “Edda”, trasmessa da Raiuno nel 2005, si concentrava sulla vita della indomita Mussolini – che aveva il volto di Alessandra Martines - prima e durante il Ventennio, esplorando il suo rapporto con il padre da una parte e con il marito Galeazzo Ciano dall’altra, stavolta la narrazione prende il via dopo la fine della guerra. È infatti l’autunno del 1945 quando Edda, in Svizzera con i figli, viene estradata per ordine del governo italiano e condotta al confino a Lipari, dove viene perquisita, umiliata e accolta con disprezzo dalla gente del luogo. Qui incontra Leonida Bongiorno, ex partigiano e capo del Partito Comunista, che la salva da un cavallo imbizzarrito durante una violenta dimostrazione per le vie del paese: nonostante le diverse ideologie e l’avversione della famiglia e dei compagni dell’uomo, i due vengono travolti dalla passione, una passione che va oltre la politica e che sembra poter durare in eterno, anche se poi si renderanno conto di appartenere a due mondi tanto diversi e di essere condannati a separarsi, quando l’amnistia Togliatti permette a lei di tornare a Roma dai propri figli e lui rimane invece a Lipari. «È una storia bellissima ma tragica» afferma Luca Barbareschi «perché entrambi sanno che è destinata a finire e, pur amandosi, sono costretti a lasciarsi, che è la cosa più drammatica. Credo sia il sogno di tutte le donne andare su un’isola deserta e innamorarsi: è quello che è accaduto a Edda, che su quell’isola lontana, difficilmente raggiungibile ancora oggi, ha trovato il grande amore». Proprio come il libro di Sorgi, che meglio di altri «ha colto il lato passionale» della vicenda, anche la fiction ricostruisce gli eventi basandosi sul carteggio tra la Mussolini – che lui chiamava “Ellenica” - e Leonida (che per lei era “Baiardo”, come il focoso cavallo dell’“Orlando furioso”), ritrovato in un vecchio armadio nella casa del figlio di Bongiorno: lettere tanto ricche di ricordi, annotazioni e suggestioni, da permettere agli sceneggiatori di immaginare le scene e creare un tessuto narrativo avvincente. Che, però, non pone l’accento sulla politica, né si lascia andare a prese di posizione. È, e resta, solo il racconto di un amore grande e impossibile. La stessa Storia, quella con la maiuscola, resta praticamente di sottofondo: «è presente come un’eco lontana», spiega Barbareschi, «perché si sa che lei è la figlia del Duce, si sente che ci sarà il Referendum, che è un periodo di grandi cambiamenti, ma non ci si sofferma su queste cose: quella che raccontiamo è la storia d’amore». Nel cast, oltre a Preziosi - che a breve vedremo anche al cinema, nei panni di uno sciupafemmine misogino e superficiale in un episodio della commedia di Fausto Brizzi “Maschi contro femmine” con Paola Cortellesi - e Stefania Rocca (al suo ritorno in tv dopo la gravidanza che le ha impedito di prendere parte alla seconda stagione della fiction “Tutti pazzi per amore”), anche Ilaria Occhini che interpreta Donna Rachele, vedova di Benito Mussolini e madre di Edda. Il film, le cui ultime scene si stanno girando in questi giorni, è destinato a Raiuno, dove potrebbe andare in onda già in primavera in un’unica serata. «Ma vedremo che strategia usare» conclude il produttore, anticipando che «potremmo decidere di farlo uscire anche nelle sale».

14 ottobre 2010
Quelli che... Il bluff delle anteprime per gonfiare lo share

È mai possibile che, in una sfida tra programmi concorrenti, il conduttore dell’uno dica di essere stato il più seguito dal pubblico e quello dell’altro sostenga il contrario? In un certo senso, sì. Non parleremo qui del target commerciale, il parametro utilizzato da Mediaset per comunicare i dati d’ascolto delle trasmissioni in onda sulle sue reti, che genera spesso confusione perfino tra gli addetti ai lavori. Il fenomeno che vogliamo considerare è piuttosto la moda ormai dilagante, come ha fatto notare Tv Blog, di scorporare i programmi per guadagnare in share. Il trucchetto è semplice: si crea un’anteprima, un’appendice finale oppure si divide l’intera durata in più parti ed ecco che si può estrapolare il risultato migliore, che viene poi puntualmente sbandierato perché arrivi alle orecchie degli inserzionisti. Ma entriamo nel dettaglio. Moltissimi programmi - “Striscia la notizia”, “Annozero”, “Chi vuol essere milionario”, “Porta a porta”, solo per citarne alcuni – vanno in onda per qualche minuto prima che, dopo il break pubblicitario, cominci la puntata vera e propria, che viene rilevata come tale a partire dalla sigla di testa: in questo modo si elude il rischio di perdere spettatori durante la pubblicità e si dà il tempo, a coloro che sono stati fino a quel momento sintonizzati su un’altra rete, di cambiare canale. Se però l’anteprima dura parecchio, e per giunta non differisce da quello che viene dopo, allora il gioco è inaccettabile. E anche vagamente ridicolo. Prendiamo l’“Ante-Factor” che precede “X-Factor”, 20 minuti durante i quali prendono addirittura il via le esibizioni dei concorrenti, oppure la “Presentazione” di “Se... a casa di Paola”, che entra già nel vivo del talk, e soprattutto “Quelli che aspettano”, quasi due ore che la Ventura conduce – con tanto di partite e relativi collegamenti dagli stadi - prima che il titolo muti in “Quelli che il calcio e...”, di durata inferiore ma share più alto. Ci sono poi le appendici finali, come “I saluti di Eter” che chiudono “C’è posta per te”, “Se ve li siete persi” che lo scorso anno veniva dopo “La Corrida” e “Io canto e poi” che conclude il talent di Canale 5 con i baby cantanti. Infine, ci sono le trasmissioni che vengono scorporate in più parti, come “L’eredità” (dove la “ghigliottina” finale, seguitissima, viene rilevata separatamente dalla “sfida dei 6” iniziale) e, soprattutto, “Domenica In” e “Domenica Cinque”, frazionate l’una in tre segmenti (“L’arena”, a sua volta divisa in due, “Amori” e “In onda”, anch’essa sdoppiata) e l’altra in tre (che diventano ugualmente sei con “Prima di Domenica Cinque” e i saluti finali). Tutti escamotage che servono ad “ingannare” l’Auditel, per rosicchiare punticini che fanno guadagnare parecchio denaro (nel caso della Rai, ogni punto in più fa incassare all’azienda circa 20.000 euro) ma che ai telespettatori, francamente, appaiono solo un grande, grandissimo bluff.

6 febbraio 2007
Cloni da fiction. Rai e Mediaset si scopiazzano

La fiction del 2007? È totalmente scopiazzata. Che Rai e Mediaset propongano spesso e volentieri serie tv dedicate agli stessi argomenti non è una novità - ne sono prova le varie miniserie dedicate al santo di Pietrelcina (“Padre Pio: tra cielo e terra” e “Padre Pio. Un santo tra noi”), Papa Roncalli ( “Il Papa buono-Giovanni XXIII”, “Papa Giovanni”) e Papa Wojtyla (“Karol, un uomo diventato Papa”, con il suo seguito “Karol, un Papa rimasto uomo”, e “Giovanni Paolo II”) - ma quest’anno stiamo per assistere ad un’autentica invasione delle fiction-clone. E stavolta, strano ma vero, santi e pontefici non c’entrano per niente. La guerra degli ascolti si combatte infatti soprattutto all’interno degli ospedali. Dopo “Nati ieri”, 13 episodi su Canale 5 che raccontano la quotidianità in un reparto maternità, ecco arrivare il 25 febbraio su Raiuno “Medicina Generale” con Nicole Grimaudo e Andrea Di Stefano, 12 puntate - 8 adesso e 4 in autunno - sulla vita in un grande ospedale romano, con scene spesso girate tra Pronto Soccorso, sala operatoria e le altre zone dove si combatte ogni giorno tra la vita e la morte. E quale sarà, presumibilmente, l’ambientazione di “Reparto d’emergenza”, fiction che la TaoDue Film realizzerà per Canale 5, con Raoul Bova nei panni di un fascinoso medico? A giudicare dal titolo, che comunque non è definitivo, sarà la stessa della veterana “E.R.”, che tanto successo ha avuto in Italia come nel resto del mondo. E se pensiamo che anche su Raidue è prevista una serie lunga girata tra le corsie di un ospedale, quell’“Hospital central” adattamento di un format spagnolo, è chiaro che sia la tv di Stato che il Biscione stanno cavalcando l’onda del successo di serie americane come “Dr. House”, “Grey’s Anatomy” e via dicendo. Ma gli scopiazzamenti non si fermano qui e riguardano anche temi forti come la mafia. Dopo che Pietro Valsecchi ha realizzato “L’ultimo padrino”, miniserie sulla cattura di Bernardo Provenzano che vedremo su Canale 5 a marzo con Michele Placido nei panni del super boss di Corleone, e progettato “Il capo dei capi”, sulla storia di Totò Riina, ecco che nella lista delle prossime fiction in programma sulla Rai sbuca “I Corleonesi”, miniserie prodotta dalla Palomar di Carlo Degli Esposti e diretta da Alberto Negrin, dedicata all’ascesa e alla caduta di Liggio, Riina e Provenzano, interpretati rispettivamente da Stefano Dionisi, Marcello Mozzarella e David Coco. «Mi spiace che la Rai voglia sempre copiare la TaoDue, stavolta con “I Corleonesi”», ha commentato Pietro Valsecchi quando ha appreso la notizia e poi, con un evidente riferimento alla fiction su Giovanni Paolo II seguita al suo “Karol”, ha aggiunto, «Saccà ha naso e sono contento che mi segua sempre. Ma fare due padrini è più difficile che fare due Papi». In realtà non è solo Valsecchi ad essere clonato. Ne sa qualcosa la Lux Vide, che per il progetto “Imperium” deve ancora mandare in onda i capitoli “Pompei” - prossimamente su Raiuno - e “Costantino” e già vede all'orizzonte chi è pronto a saccheggiare quegli stessi terreni: la DAP di Guido e Maurizio De Angelis, che ha in lavorazione per Canale 5 una miniserie dal titolo “Gli ultimi giorni di Pompei” che difficilmente si discosterà molto dall'equivalente della Rai, e la Italian International Film di Fulvio Lucisano, che pare abbia in cantiere “Ai confini dell’impero”, sull'impresa di Costantino - ebbene sì, ancora lui - e di altri quattro generali per sconfiggere il paganesimo. La cosa paradossale è che in quest’ultimo caso la lotta è interna Rai, visto che anche questa miniserie è destinata a Raiuno. Come al limite dell’incredibile è il fatto che “Questo è amore”, serie lunga sempre per Raiuno che racconta la storia di una famiglia allargata strizzando l’occhio ai sentimenti, sia realizzata dalla Publispei di Carlo Bixio, già produttore de “I Cesaroni” che su Canale 5 ha in pratica lo stesso impianto narrativo. E se la serie Rai “Rossella”, ambientata nella Milano d’inizio Novecento, non può certo essere considerata “figlia” della miniserie di Canale 5 “Maria Montessori”, è pur vero che la grande pedagogista è uno dei personaggi con i quali la protagonista ha a che fare nel corso delle puntate. Ma la guerra a colpi di scopiazzature non vede schierate l'una contro l’altra solo Rai e Mediaset: appena lanciatasi nell’avventura della fiction, anche Sky si è adeguata allo stile delle reti generaliste. E così, accanto ad una serie tratta dal film di Gabriele Salvatores “Quo Vadis Baby”, la tv satellitare ha annunciato di avere in cantiere la miniserie “Un uomo in fuga” dedicata al campione di ciclismo Marco Pantani, già protagonista del tv-movie di Raiuno “Il pirata” della Ballandi Entertainment, che dovrebbe essere interpretata da Claudio Bisio e sarà prodotta dalla Colorado Film Production. Insomma, va bene che repetita iuvant, ma qui rischiamo davvero il trionfo del già visto.

24 maggio 2011
Repliche d'oro. Da Trinità a Ghost, l'usato sicuro che batte tutti

 Doveva partire il 20 maggio, la nuova trasmissione “Lasciami cantare”, ma a poche ore dalla messa in onda Raiuno ha deciso di farla slittare a domani sera, per colmare il buco in palinsesto venutosi a creare con la soppressione del programma di Sgarbi. Al posto di Carlo Conti, dunque, il pubblico dell'ammiraglia Rai venerdì scorso si è trovata davanti Luca Zingaretti: come spesso accade, la direzione di rete si è infatti affidata ad un titolo sicuro, “Il commissario Montalbano”, che finora ha sempre ottenuto ottimi ascolti perfino in replica (insieme a “Don Matteo” è la fiction-jolly della tv pubblica). Una cosa che capita più spesso ancora con alcuni vecchi film capaci di dare del filo da torcere anche ai nuovi format, arrivando a volte a batterli. Prendiamo “Lo chiamavano Trinità”: il western comico del 1970 con Bud Spencer e Terence Hill, all'ennesima riproposizione - probabilmente la meno seguita della sua storia, con “appena” due milioni di spettatori - martedì scorso ha comunque superato la ben più costosa trasmissione di Rai2 “I love Italy”, che si è fermata a 1.784.000. E c'è da scommetterci che avverrà la stessa cosa stasera con “Continuavano a chiamarlo Trinità”, che negli ultimi passaggi televisivi ha avuto una media di tre milioni di spettatori e il 12,5% di share. Due pellicole, queste, tra i pezzi forti di Rete4, che ripropone annualmente tutte le commedie della coppia, ma anche i film di “Don Camillo” con Gino Cervi e Fernandel (seguiti ancora da oltre due milioni di persone, dopo sessant'anni) e un cult di tutt'altro genere come “Gli intoccabili” (2.200.000 spettatori e il 9% di share). Gli assi nella manica di Canale 5 sono invece “Titanic”, che due settimane fa ha ottenuto il 17% di share con 3.455.000 spettatori (non sono certo i 12 milioni e mezzo della prima tv del 2001, ma di questi tempi va benissimo), e soprattutto “Ghost”, film del 1990 che lo scorso anno è riuscito ad incantare oltre 4.600.000 persone (il 22% della platea televisiva), ma va molto bene anche “Dirty Dancing”, di tre anni precedente e ugualmente interpretato da Patrick Swayze, che si aggira ancora attorno ai tre milioni di spettatori. Su Raiuno hanno sempre un buon riscontro di pubblico i due “Sister Act”, seguiti abitualmente da tre milioni e mezzo-quattro milioni di persone. Non male, su Italia 1, la saga di “Rambo” (intorno al 10% di share, con 2.500.000 spettatori) mentre Rai3 ottiene sempre ascolti dignitosi con “Pane, amore e fantasia”, che un paio d'anni fa ha interessato quasi 3.500.000 persone (13,5% di share). Ma il vero, autentico, inspiegabile fenomeno è “Pretty Woman”: la commedia romantica del 1990 con Julia Roberts e Richard Gere è stata trasmessa ben 20 volte, anche ad appena sei mesi dal precedente passaggio televisivo, e nonostante ciò continua a restare saldamente ancorato al 20% di share, con circa quattro milioni e mezzo di spettatori incollati al teleschermo ad ogni replica. Segno evidente che, in confronto a certe trasmissioni di oggi, continua ad essere meglio un buon vecchio film.

19 luglio 2009
Divi in fuga dal cinema

Dal piccolo al grande schermo e viceversa, senza snobismi e reticenze. Negli Stati Uniti è la regola, o quasi. Non a caso molti attori hanno cominciato la loro carriera proprio con le serie tv. Il premio Oscar Robin Williams, ad esempio, ha esordito interpretando per quattro anni – dal 1978 al 1982 – il simpatico alieno protagonista di “Mork & Mindy”, telefilm del network ABC. Oppure Will Smith, che di nomination ne ha collezionate già due (per “Alì” e “La ricerca della felicità”) ma era solo un ex rapper in cerca di nuove strade quando la NBC lo volle per la sit-com “Willy, il principe di Bel-Air”, andata avanti dal 1990 al 1996. La televisione è stata un trampolino di lancio anche Michael J. Fox (“Casa Keaton”, 1982-1989), Leonardo DiCaprio (“Genitori in blue jeans”, 1992), Jennifer Aniston (“Friends”, 1994-2004), perfino per un figlio d’arte come Michael Douglas (“Le strade di San Francisco”, 1972-1976). Meno scontato sembrerebbe l’approdo sul piccolo schermo da parte di star del cinema. E invece basta dare un’occhiata ai serial americani per rendersi conto che non è così. Proprio in questi giorni sta andando in onda, il mercoledì in seconda serata su Fox Crime (e il sabato nella stessa fascia oraria su Retequattro), la seconda stagione di “Shark”, legal drama della CBS con James Woods – quasi 130 film all’attivo, tra cui pellicole “cult” come “C’era una volta in America”di Sergio Leone e “Salvador” di Oliver Stone – nei panni di un avvocato senza scrupoli diventato capo di una divisione di pubblici ministeri. Sempre sul canale Sky dedicato al crimine si può seguire “Life on Mars” (versione a stelle e strisce, di ABC, dell’omonima serie britannica), che ha nel cast un’altra star, Harvey Keitel (“Le iene”, “Pulp fiction”). E che dire di Glenn Close? L’attrice, dopo tanti film di successo (“Attrazione fatale”, “Le relazioni pericolose”, “Il migliore”) e cinque nomination all’Oscar, ha recentemente recitato in due pluripremiati telefilm, “The Shield” e “Damages” (quest’ultimo attualmente in onda su Canale 5, la domenica a mezzanotte e mezza). Tra i tanti attori che si sono prestati di buon grado a passare alla tv, Gary Sinise (il tenente Dan di “Forrest Gump”), dal 2004 protagonista di “CSI: New York”, James Spader (“Sesso, bugie e videotape”, “Crash”) e Candice Bergen (“Soldato blu”), protagonisti di “Boston Legal”, e la grande Vanessa Redgrave (“Blow-up”, Oscar per “Giulia”), per due stagioni nel cast di “Nip/Tuck”, serie dove farà il suo arrivo, a breve, anche Melanie Griffith (“Omicidio a luci rosse”). E, ancora, Rosanna Arquette (“Fuori orario”, “Pulp fiction”), che recita in “A proposito di Brian”, James Caan (“Il padrino”, “Misery non deve morire”), protagonista di “Las Vegas”, Jim Belushi, da otto anni star della sit-com “La vita secondo Jim”, e Kiefer Sutherland (“Ragazzi perduti”), che deve la notorietà a “24”. Perfino due vere icone di Hollywood, Al Pacino e Meryl Streep, hanno preso parte ad una serie, “Angels in America”. E da noi? In Italia le cose non vanno esattamente nello stesso modo. Da una parte il cinema guarda spesso con sospetto a chi ha ottenuto il successo recitando soprattutto per il piccolo schermo (chiedetelo a Beppe Fiorello, che ha sempre lamentato la scarsa attenzione nei suoi confronti da parte dei produttori cinematografici, almeno fino a quando è stato scelto per una parte in “Baaria”), dall’altra ci sono quegli attori cosiddetti impegnati che non hanno mai lavorato in una fiction (pensiamo a Nanni Moretti, Carlo Verdone, Laura Morante, Silvio Muccino, tanto per citarne alcuni) o che rinnegano di averlo fatto (è il caso di Nicolas Vaporidis), magari per paura di “svendersi” con un genere che considerano di serie C. Che abbiano torto o ragione, forse le nostre star dovrebbero imparare la lezione di umiltà dai colleghi d’oltreoceano.

2 novembre 2004
Aiuto, sono sparite le telenovelas

Un tempo gli appassionati di telenovele avevano il televisore sempre sintonizzato su Rete 4, canale tradizionalmente aperto alle produzioni provenienti dal Brasile o dal Venezuela. Con il passare degli anni, la rete diretta da Giancarlo Scheri ha però cambiato “pelle”, cercando un pubblico più maschile e finendo così per ridurre al minimo gli sceneggiati di matrice latino-americana, relegati ormai ad orari impossibili (“La madre” trasmesso alle 6.00, “Innamorata” alle 6.40) o ad un unico appuntamento settimanale (è il caso di “Garibaldi”, in onda tutto novembre il sabato in preserale). Il tutto mentre nelle reti Mediaset dominano le soap italiane come “Vivere” e “Centovetrine”. Una scelta che ha creato scompiglio e disappunto tra i cultori del genere, i cui commenti - molti dei quali sono inaspettatamente firmati da maschietti - trovano quotidianamente spazio nel sito di “Tv Sorrisi e canzoni” e nei forum on line specifici, come Amici delle Telenovelas Italia (www.network54.com/Hide/Forum/32494) o Mondo Globo (www.network54.com/Forum/349532). All’indirizzo www.utenti.lycos.it/petizionetv/ c’è addirittura una raccolta di firme «per chiedere a Rete4 e a Mediaset di non smettere di trasmettere le telenovelas sudamericane e, anzi, di acquistarne delle nuove». In realtà Rete 4 ne avrebbe una nuova nel cassetto - la brasiliana “Chiquinha Gonzaga”, 35 puntate dirette da Jayme Monjardim - ma l’ufficio stampa fa sapere che, sebbene la data di messa in onda non sia stata ancora decisa, certamente non sarà programmata nell’immediato futuro. Solo le tv locali non hanno smesso di proporre questo genere che ancora conta un gran numero di appassionati. 7Gold, emittente ormai fruibile quasi in tutta Italia, trasmette ad esempio dal lunedì al venerdì alle 14.30 “Cuore selvaggio”, grande successo interpretato dal compianto Eduardo Palomo, mentre la toscana Antenna 6 ripropone alle 9.00 un altro “cult”, “Andrea Celeste”. I più fortunati sono però gli abitanti delle regioni centro-meridionali. Se infatti nei giorni feriali le capitoline Teleroma 56 e Super 3 trasmettono rispettivamente “Atto d’amore” alle 6.00 (replica alle 16.45) e “Top model” a mezzogiorno e la pugliese Antenna Sud “Señora” alle 6.00 e a seguire “Carolina” (entrambe ripetute all’ora di pranzo), Telenorba - visibile in Puglia, Basilicata, Molise e in parte di Calabria, Campania e Abruzzo - ha in palinsesto ben sei telenovele: dal lunedì al sabato, dalle 13.35 alle 15.20 si susseguono “Maria Maria”, “Celeste”, “Libera di amare” e “Rubi”, il martedì in prima serata va in onda “Vento di passioni” e a breve partirà, in prima visione, “Betty la... cozza”. Divertente produzione colombiana che ha per protagonista una segretaria brillante ma bruttina, quest’ultima viene attualmente trasmessa anche su Happy Channel, alle 11 e alle 18 e il sabato in prima serata, mentre c’è davvero l’imbarazzo della scelta su alcuni canali latino-americani della piattaforma Olisat, come Telefe eMundovision.

30 novembre 2007
Chi le ha viste?

Fiction annunciate, a volte perfino confezionate, delle quali poi si sono inspiegabilmente perse le tracce. I cassetti dei produttori e delle reti tv sono pieni zeppi di titoli mai apparsi sul piccolo schermo, ancora in attesa di trovare un posticino in palinsesto. Se infatti “La vita rubata”, la miniserie sull’assassinio di Graziella Campagna prevista per lo scorso 27 novembre e poi bloccata dal direttore generale della Rai Claudio Cappon su richiesta del Guardasigilli Clemente Mastella (a sua volta sollecitato dalla Corte d’Appello di Messina con la motivazione che la fiction avrebbe potuto condizionare i giudici riuniti in udienza per quell’omicidio il prossimo 13 dicembre), ha già una nuova collocazione, il 24 febbraio su Raiuno, tante altre produzioni non hanno avuto la stessa fortuna. In alcuni casi il fatidico primo passaggio televisivo è infatti arrivato a distanza di anni dalla fine della lavorazione, con una messa in onda non all’altezza degli investimenti: “L’ispettore Coliandro” è stata ad esempio trasmessa solo nel 2006, in pieno agosto e praticamente senza promozione, dopo due anni di rinvii; ancora peggio è andata a “Sweet India”, ambiziosa sit-com multiculturale con Shel Shapiro e Edy Angelillo, prodotta da Rai Fiction e Rai O.O.P./Innovazione Prodotto, data per imminente nella primavera del 2004 e trasmessa invece nel luglio del 2006, peraltro in un orario talmente penalizzante – il sabato mattina alle 11.00 – che gran parte del pubblico non se n’è nemmeno accorto. Meglio un ritardo, comunque, che finire nel dimenticatoio dopo aver sputato sangue dietro e davanti la macchina da presa. Ne sanno qualcosa due registi come Massimo Spano, che dal 1999 attende la messa in onda della sua miniserie con Giuliano Gemma “Game over”, e Alberto Sironi, che lo scorso anno ha dovuto sospendere la lavorazione della fiction “L’ultima trincea” perché la Rai, dopo aver bocciato tutte le sue scelte, continuava a proporgli attori già impegnati su altri set. E poi ci sono i titoli annunciati e rimasti poi in sospeso. Se sul fronte Mediaset si sono perse le tracce delle due puntate sul Mostro di Firenze tratte dal libro di Michele Giuttari e Carlo Lucarelli “Compagni di sangue”, di cui hanno parlato un paio di anni fa sia il produttore Pietro Valsecchi che l’attore Lorenzo Flaherty, è ancora la tv di Stato ad avere il primato dei progetti mai realizzati. Si va dalla storia di Sandro Pertini prodotta con la Immagine e cinema, che un anno e mezzo fa avrebbe dovuto avere come protagonista Giorgio Pasotti, alla biografia del fondatore dell’Opus Dei José Escriva targata Lux Vide, annunciata pomposamente lo scorso febbraio - con tanto di attori del calibro di Robert De Niro, Antonio Banderas e Nicolas Cage candidati a vestire i panni del religioso - e subito dopo rimandata a data da destinarsi, fino alla miniserie sui due ex Nar Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, già identificati in Giorgio Pasotti e Nicoletta Romanoff, che Claudio Bonivento ha dovuto accantonare per volere della coppia e per le proteste dei familiari delle vittime della strage di Bologna. E, ancora, non si sa più niente di una fiction pseudopoliziesca con Bud Spencer presentata a suo tempo con il titolo provvisorio “Delitti e fornelli”, di una sitcom sentimental-culinaria con Antonella Clerici allo studio dal 2004, di “Rossella”, affresco del Novecento lombardo firmato da Sergio Silva, delle due puntate su Giacomo Puccini previste per il 150° anniversario della nascita del compositore e dell’eventuale remake in salsa meneghina del serial “I ragazzi del muretto”, idea balenata al direttore di RaiFiction Agostino Saccà esattamente dodici mesi fa.

29 marzo 2009
Smemorato e molto amato

Ci fu un caso, negli anni Venti, che spaccò in due l’opinione pubblica: quello dello “smemorato di Collegno”, un uomo apparentemente senza memoria che due donne – la veronese Giulia Canella, moglie di uno stimato professore di filosofia disperso durante la Prima Guerra Mondiale in Macedonia, e Rosa Bruneri, sposata con un tipografo noto alle forze dell’ordine per una serie di truffe e per le sue idee socialiste – riconobbero come il proprio marito e del quale ancora oggi non è stata svelata con assoluta certezza l’identità, non essendoci a quel tempo i mezzi attualmente utilizzati per l’identificazione delle persone, in primis il test del Dna. La sua storia, così fitta di mistero e allo stesso tempo così spettacolarizzata dai mezzi di informazione dell’epoca, ha ispirato da allora scrittori e sceneggiatori: ne prese spunto Pirandello per l’opera teatrale “Come tu mi vuoi” (sebbene nel dramma sia una donna ad essere contesa da due mariti), Leonardo Sciascia ne ripercorse i fatti nel suo libro “Il teatro della memoria. La sentenza memorabile”, mentre sul grande schermo la vicenda fu portata nel 1964 da Sergio Corbucci con “Lo smemorato di Collegno” interpretato da Totò e venti anni più tardi da Pasquale Festa Campanile con “Uno scandalo perbene” con Ben Gazzara. Ora quella storia è diventata anche una miniserie per la tv, prodotta da Susanna Bolchi e Aureliano Lalli-Persiani per Casanova Entertainment e diretta da Maurizio Zaccaro, in onda stasera e domani in prima serata su Raiuno, con Johannes Brandrup, Gabriella Pession e Lucrezia Lante Della Rovere nei panni dei protagonisti. Il titolo, naturalmente, “Lo smemorato di Collegno”. «Un paio di anni fa m’è tornata in mente questa storia che un professore mi aveva raccontato al liceo», ha spiegato alla stampa il direttore di RaiFiction Fabrizio Del Noce, «ho pensato che ne sarebbe uscita una bella fiction». La sceneggiatura, firmata da Andrea Purgatori e Laura Ippoliti, con la collaborazione di Zaccaro, è liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Lisa Roscioni. La fiction non avvalora alcuna ipotesi ma ripercorre fedelmente le varie fasi della vicenda senza schierarsi. «Lasciamo aperte tutte le contraddizioni», anticipa Gabriella Pession, che interpreta la moglie di Canella, «io credo che Giulia, all’inizio, fosse davvero convinta che lui fosse suo marito. Poi, forse, si è accorta che non era vero ma, magari, si è innamorata di quell’uomo nuovo». «Maurizio prima delle riprese mi ha detto di non studiare questa storia e di comportarmi come un pendolo, che ondeggia nel dubbio, da una parte all’altra», continua l’attrice, «il mio è un personaggio che pur muovendosi nell’ambiguità ha la coerenza di difendere le proprie idee». «Non voglio prendere posizione sul personaggio», afferma da parte sua l’attore tedesco Johannes Brandrup, che molti ricorderanno per aver recitato accanto a Sabrina Ferilli in “Al di là delle frontiere”, «posso dire però che ho tanta compassione per Giulio Canella, che ha visto gli orrori della guerra, mentre la furbizia di Bruneri mi fa paura, anche se ne ammiro la forza di volontà». L’unica a sbilanciarsi è l’autrice del libro, Lisa Roscioli, che in proposito dice: «Probabilmente lui era Mario Bruneri ma in ogni caso è comunque diventato un altro uomo: è Bruneri che cerca di essere Canella. Sulla sua tomba in Brasile c’è scritto Julio Canella». «Oggi, grazie al Dna, il caso sarebbe stato risolto in 24 ore», commenta il capostruttura di Rai Fiction Pino Corrias, concludendo che «è quasi certo che fosse Bruneri ma è più bello pensare che fosse Canella».

30 aprile 2010
Trovajoli le suona alla Rai

C’è una foto con Alberto Sordi e una con l’allora presidente Ciampi mentre gli conferisce la decorazione di Cavaliere di Gran Croce, tra i tanti ritratti di famiglia e le foto con registi e attori appese alle pareti e poggiate sulle mensole. E poi un cartello con la scritta “Il teatro è tutto esaurito”, spartiti incorniciati, la locandina del primo concerto di Gershwin in Italia – alla Basilica di Massenzio a Roma, nel 1953 – e quelle degli spettacoli del Sistina, da “Oggi è già domani” con Paola Quattrini a “Evviva!” di Enrico Brignano. E c’è il pianoforte a coda, nero laccato, dove ancora oggi si siede per comporre. Lo studio di Armando Trovajoli, nella sua villa all’Olgiata, assomiglia ad un museo, dove i frammenti di 92 anni di vita si accostano l’uno all’altro in un cocktail che nella casa di un uomo qualunque sarebbe soltanto curioso, qui ha invece il sapore di un tuffo nella storia dello spettacolo italiano. Il maestro sorride, si concede benevolo alle telecamere e suona qualche stralcio del suo repertorio, passando da “Roma nun fa’ la stupida stasera” ad “Aggiungi un posto a tavola”, dedicato ad un’amica giornalista che gli ha confidato di amare quella commedia più di ogni altra. L’occasione di un incontro straordinario con un uomo straordinario è la presentazione della sezione a lui dedicata nella library delle colonne sonore di RaiTrade, dove trasmissioni tv, film e televisioni estere potranno attingere musiche “di sottofondo”, perché «laddove serve la sottolineatura che dà sensazioni, pathos, qualcosa che faccia vibrare lo spettatore, bisogna farlo ad arte», spiega. La libray prenderà in considerazione 360 opere del maestro, il quale non è escluso che possa anche comporre nuove musiche su commissione. Ma qual è la colonna sonora, tra le tante composte, alla quale Trovajoli è più affezionato? «Sarà l’emozione del momento, ma forse “Riusciranno i nostri eroi”, perché c’era Scarpelli», ammette, ricordando commosso lo sceneggiatore scomparso due giorni fa: «la mia mente è su di lui, mi tormenta un po’ questa morte». Per quanto riguarda invece il teatro, invece, «sarebbe facile dire “Rugantino” ma forse è “Ciao, Rudy”, perché con Mastroianni era una cento giorni di follia e vivere cento giorni da folli non è da tutti». Tra i tanti aneddoti di una lunga carriera, il tormento ogni volta che doveva far cantare i protagonisti delle commedie musicali, perché «negli Stati Uniti a qualunque attore dici canta, tutti sono Frank Sinatra e Barbra Streisand, invece da noi sono tutti stonati: Manfredi, Mastroianni, Lea Massari, Bice Valori, Panelli, la Lojodice... solo Dorelli s’è salvato». Ricordi di un artista che con la musica si è sempre «divertito tanto». Anche se, ammette, «la musica è una gran puttana, perché improvvisamente ti mette le corna. Se ne va per i fatti suoi e ti lascia solo, con il pentagramma vuoto. Disgraziatamente il produttore o il regista ti danno il tempo minimo, ti dicono dopodomani la musica deve essere pronta, ma questa puttana dove sta? A un certo punto, mentre stai dormendo, ti svegli e dici: eccola!».

16 maggio 2008
Sindrome Moccia, l'adolescenza esplode in tv

La sindrome di Moccia ha contagiato anche il piccolo schermo. Dopo tante pellicole dedicate espressamente agli under 18 – l’ultimo in ordine di tempo, “Ultimi della classe” con Giulia Elettra Gorietti e Andrea De Rosa, è da oggi nelle sale – stanno infatti spuntando come funghi le “teen fiction”, ovvero quelle serie tv che hanno per protagonisti gli adolescenti, con le loro inquietudini, le loro pene d’amore e i loro problemi esistenziali. Le uniche, a quanto pare, ad andare bene davvero, almeno da qualche tempo a questa parte. Del fenomeno “Cesaroni” si è parlato e riparlato: le avventure della sconclusionata famiglia allargata capeggiata da Claudio Amendola ed Elena Sofia Ricci hanno ottenuto in questa seconda stagione ascolti spesso al di sopra del 30% ed è innegabile che gran parte del merito sia da attribuire proprio agli attori più giovani, che sono riusciti ad appassionare i loro coetanei con l’amore altalenante tra Marco ed Eva, i problemi scolastici di Rudi e le prime cotte di Alice, tant’è che nelle fasce d’età 8-14 anni e 15-24 la fiction supera addirittura il 50% di share. Terminata la serie dalle uova d’oro – anche se ieri sera è andata in onda la prima delle due puntate di “Ricapitolando”, con il meglio dei 26 episodi trasmessi, e il direttore di Canale 5 ha annunciato una imminente sorpresa che coinvolgerà il cast al gran completo - la rete ammiraglia Mediaset ha già trovato il degno sostituto: “I liceali”. Già trasmessa con successo sul canale digitale terrestre Joy, uno dei tre dell’offerta Premium Gallery, la fiction che vede Giorgio Tirabassi e Claudia Pandolfi nei panni di due insegnanti di un prestigioso liceo di Roma ha esordito mercoledì sera sulla tv generalista riportando subito un buon risultato, il 22,29% di share sul totale individui, che ristretto al solo target commerciale vuole dire il 24,89%, con addirittura il 42,48% di media nel pubblico tra i 15 e i 24 anni, la fascia d’età più vicina a quella dei protagonisti. Le serie tv incentrate sui ragazzi quindi piacciono, è un dato di fatto, e proprio per questo sia Mediaset che la Rai hanno in serbo almeno un titolo ciascuna da destinare al pubblico più giovane. Su Canale 5 andrà infatti in onda il 20 e 21 maggio “O’ professore”, miniserie interpretata da Sergio Castellitto e Luisa Ranieri che racconta gli sforzi di riportare a scuola i propri alunni, molti dei quali sono stati risucchiati in un vortice di camorra e prostituzione, da parte di un docente delle medie nel disagiato Rione Sanità a Napoli, con uno sguardo più attento a cogliere i problemi sociali degli adolescenti piuttosto che limitarsi a quelli puramente emotivo-sentimentali. Quanto alla tv di Stato, è già pronto da qualche tempo, ma ancora in attesa di una collocazione nel palinsesto di Raidue, il film-tv “Noi due”, tratto dal romanzo di Enrico Brizzi “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”: è la storia del diciottenne Jack, interpretato da Federico Costantini (il Claudio Rizzo de “I liceali”, guarda un po’), che si innamora perdutamente della coetanea Greta (Giulia Steigerwalt), una ragazza indecifrabile e solo in apparenza spensierata, e viene poi messo a dura prova quando scopre per caso che lei è affetta da una grave malformazione cardiaca e che solo un delicato intervento in Canada può salvarle la vita. Insomma, il filone giovanilistico sembra essere il nuovo trend non più solo al cinema ma anche in televisione e le reti a quanto pare si sono già attrezzate per cavalcare l’onda. Per la gioia dei fan di Moccia, un po’ meno per quella dei padri e delle madri dei suoi lettori.

10 aprile 2010
Quel gran pezzo dell'Ubaldo

Ogni settimana, a “Quelli che il calcio”, propina pillole del “Lapo pensiero” a dir poco esilaranti, con frasi piene zeppe di congiuntivi buttati lì a caso e citazioni in un latino che più maccheronico non si può. A “Glob”, la domenica sera su Raitre, diventa un Marco Travaglio molto più simpatico dell’originale di “Annozero”. Ma l’abbiamo visto anche nei panni di un Massimo Giletti ossessionato dalla tv di qualità, di un Gianfranco Fini iperpolemico che parla in “politichese”, un Piersilvio Berlusconi promotore del telecomando senza i tasti relativi alle reti Rai e un Pippo Inzaghi che soffre nel sentire il nome di Gilardino. È Ubaldo Pantani, uno dei comici più apprezzati del momento. Un «intrattenitore e non un satiro», come ci tiene a sottolineare, per la sua abilità nel «giocare sui tre livelli di imitazione, parodia e trasformismo», laddove per imitazione si intende «l’aspetto tecnico», per parodia la capacità di «accentuare un aspetto del carattere che trapela nel personaggio e farne il basamento per la ricostruzione di uno nuovo» e per trasformismo la bravura nell’«immedesimarsi e confondersi nel proprio personaggio», anche grazie a ore e ore di trucco. Toscano, 39 anni appena compiuti, un curriculum che parte da “Macao” di Gianni Boncompagni, nel 1997, per proseguire poi con una serie di programmi satirici come “Convenscion”, “Nessundorma”, “Assolo” e i diversi “Mai dire...” della Gialappa’s, fino a “Sugo”, “Glob” e, da gennaio scorso, “Quelli che il calcio”, dove lo vediamo nei panni di Lapo Elkann e di Claudio Silvestri, il cuoco della Nazionale del celebre spot della Nutella. La sua ultima creatura è il clone di Marco Travaglio. In giacca color senape, postura seriosa («sto lavorando sulla voce e mi interessa molto la gestualità», spiega) e capello brizzolato, il giornalista del “Fatto quotidiano” viene canzonato per la sua disinvoltura nel passare continuamente dalla carta stampata alla telecamera. «Prendo in giro la poliedrica attività di Travaglio che sta cadendo un po’ nel vanesio come Odifreddi», racconta a “Libero” Pantani, «mi chiedo quando trovi il tempo di scrivere, se sta sempre in tv. Travaglio fa troppo l’intrattenitore. Questo continuo fare battute mi sembra superfluo, cade nel goffo». «Comunque non è l’antiberlusconismo di Travaglio ad avermi fatto muovere», precisa. Ogni personaggio che decide di proporre, infatti, deve avere due caratteristiche fondamentali: non deve essere stato ancora imitato, «per correttezza nei confronti sia del pubblico, sia del comico che l’ha proposto prima», e deve avere «una caratteristica che mi sorprenda, un tratto molto marcato da dove è possibile costruire una parodia o un’imitazione». Come la parlata di Lapo Elkann, con i congiuntivi ancora più confusi del pensiero espresso, quando si giustifica per la celebre figuraccia durante la partita dell’NBA tra Los Angeles Lakers e Toronto Raptors dicendo che «lo sport è bello perché tutti debbino partecipare, si può sbagliare però “audare commentare est”: bisogna, se si fa errore, fare fotocopia di errore e ti rimane in memoria... io ho preso palla per fare fotocopia, poi l’ho rimessa lì»; e ancora, sempre a proposito di quella gaffe davanti alle telecamere di tutto il mondo: «come dichino gli anglosassoni, “errare humanum est, perseverare de gustibus”, io porghi scusi agli americani». E non ci ricorda tanto l’originale, con le sue bizzarre creazioni di moda, quando parla di un paio di occhiali appena inventato «con delle lenti invisibili che hanno la percezione alla gente che tu non abbi ma che si possi vedere»? Caricature che non hanno niente da invidiare a quelle di comici più navigati e noti al grande pubblico, come Corrado Guzzanti, riapparso proprio ieri su Comedy Central (canale 117 di Sky), e Max Giusti, che ha voluto invece concedere un anno di riposo alle sue parodie per dedicarsi prima ai pacchi e poi allo show di Raiuno “Stasera è la tua sera”. 

27 febbraio 2005
La tv svela le "Bugie della Storia"

I detti popolari hanno sempre un fondamento di verità, ma che questa regola valesse anche per la frase “i comunisti mangiano i bambini” non ce lo saremmo mai aspettati. «Durante la terribile carestia del 1921, in Unione Sovietica ci furono in effetti casi di antropofagia perché i poveri erano costretti a sacrificare i neonati, che non sarebbero comunque sopravvissuti, per salvare i figli più grandi», spiega infatti lo storico Piero Melograni, che per smascherare invece le false ricostruzioni e le verità omesse dai libri di storia torna a condurre “Le bugie della storia”, una striscia di pochi minuti in onda dal 5 marzo, per sei settimane, all’interno di “Parlamento In” nella seconda serata di Retequattro. Nel corso delle puntate, Melograni svelerà l’inesattezza di alcune radicate tesi storiche, come ad esempio quella che vorrebbe i sovietici come sostenitori del ritorno del PCI al governo dopo il 1947 «laddove Stalin stesso vi si oppose, perché altrimenti i cattolici polacchi avrebbero fatto una baraonda», o quella secondo cui Mussolini avrebbe deciso l’ingresso in guerra contro il volere dell’opinione pubblica «mentre invece molti di quelli che nel ‘39 erano ostili all’interventismo, nel 1940 erano diventati favorevoli per contrastare l’avanzata tedesca». Tra le altre tesi che verranno confutate, il fatto che le metropolitane siano state inventate come rimedio al traffico, quando invece la loro data di nascita è anteriore a quella delle automobili - quantomeno nelle grandi città europee come Londra o Parigi - e che la falce e il martello sia stato un simbolo socialista prima di diventare comunista, mentre fu disegnato ex novo per il vessillo sovietico per volere di Stalin. «I manuali scolastici sono pieni di errori», racconta Melograni, sottolineando come le bugie storiche siano «in larga misura della sinistra, perché quelle della destra sono state già sbugiardate da tempo. Questo atteggiamento ha però mutilato la sinistra della sua vera storia e molti dei suoi problemi dipendono proprio dal fatto che i comunisti non hanno mai avuto il coraggio di riconoscere i propri errori e da decenni sono abituati a minimizzarli. Basti pensare che hanno cambiato il nome al partito solo dopo la caduta del muro di Berlino...». Rispetto alla passata edizione, stavolta le puntate avranno come cornice l’interno del Vittoriano e il pubblico da casa potrà commentare la trasmissione e porre quesiti attraverso un portale. Tra gli altri progetti di Melograni, un libro per Mondadori contenente altre bugie storiche - «ma che possano interessare anche un pubblico non italiano, nel quale spiegherò ad esempio che Hitler in realtà non voleva la Guerra Mondiale e che la bell’Epoque non fu poi così bella» - e un filmato di 50 minuti sul viaggio del Führer in Italia nel ‘38, che uscirà in dvd nella collana “Novecento” dell’Istituto Luce e sarà forse trasmesso anche in televisione.

24 novembre 2007
La fiction fa il saluto romano

Fascisti cattivi e partigiani buoni. Per anni testi scolastici, saggi e film non hanno fatto altro che alimentare questo cliché, senza ammettere repliche. Ma ora qualcosa sta cambiando. Anche in tv. Nella prossima stagione televisiva vedremo infatti sul piccolo schermo diverse fiction ambientate nel Ventennio, alcune delle quali cambieranno decisamente punto di vista. In particolare sembra destinata a dividere l’Italia “Il sangue dei vinti”, miniserie in due puntate tratta dall’omonimo best seller di Giampaolo Pansa che arriverà su Raiuno - dopo l’uscita nelle sale - alla fine del 2008, dove la Resistenza non è più fatta di eroi ma di assassini. Attraverso la storia privata di due fratelli, il commissario Francesco Dogliani (personaggio di fantasia interpretato da Michele Placido) e il partigiano Ettore (Alessandro Preziosi), i cui genitori sono stati uccisi durante una rappresaglia condotta da antifascisti e la cui sorella è in pericolo perché fa parte della Repubblica Sociale Italiana, la fiction racconta eccidi compiuti dai partigiani nell’immediato dopoguerra, tra il 25 aprile del 1945 e la fine del ’46. Un omicidio di cui il libro di Pansa non parla, ma della stessa matrice, è quello raccontato in “Sangue pazzo”, due puntate scritte e dirette da Marco Tullio Giordana in onda prossimamente su Raiuno (anche in questo caso dopo l’uscita al cinema): protagonisti della tragica vicenda sono Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, celebri attori dell’epoca dei cosiddetti “telefoni bianchi” che avranno il volto di Luca Zingaretti e Monica Bellucci, giustiziati per volere del Comitato Liberazione Nazionale quattro giorni dopo la fine della guerra, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, perché accusati di aver sostenuto la Repubblica di Salò e aver collaborato con i tedeschi. Ma le fiction di ambientazione fascista non finiscono qui. In occasione della Giornata della Memoria del 27 gennaio, su Canale 5, andrà in onda il film-tv “L’aviatore”, con Sergio Castellitto nei panni del pilota Massimo Teglio, ebreo che durante l’Olocausto riuscì a trarre in salvo altri perseguitati, la cui storia – rigorosamente vera - è raccontata in un capitolo del libro “Uno su mille” di Alexander Stille. Da un aviatore ebreo ad un grande trasvolatore fascista: la figura di Italo Balbo, uno dei “quadrumviri” della Marcia su Roma, dovrebbe rivivere in una fiction in una o due puntate prodotta dalla Casanova Entertainment di Luca Barbareschi, Aureliano Lalli Persi e Susanna Bolchi (tra i cui progetti pare ci sia anche una biografia di Ennio Flaiano, altro protagonista dell’epoca ma di tutt’altre posizioni), ma in questo caso è ancora tutto in divenire. Sono invece già pronti per la messa in onda, su Raiuno in data da definirsi, i quattro tv-movie che hanno per protagonista “Il commissario De Luca”, personaggio nato dalla penna di Carlo Lucarelli ai tempi di “Carta bianca”, primo romanzo del celebre giallista. Prodotta da Ager3 e diretta da Antonio Frazzi, la serie è ambientata in Emilia-Romagna nel drammatico periodo che va dalla Liberazione dell’Italia del Nord all’immediato dopoguerra e vede Alessandro Preziosi nei panni di un ispettore di polizia legato al vecchio regime e perciò costretto a rimanersene rintanato in questura per evitare ritorsioni e ricatti. Tutte fiction che faranno insomma rivivere allo spettatore atmosfere e fatti del Fascismo, ma stavolta con una prospettiva inedita. Perché la storia è fatta di tante diverse sfaccettature e non può esistere un punto di vista univoco. E, soprattutto, non devono esistere i cliché. 

29 luglio 2005
Lubrano torna. Ma per gioco 

Antesignano della tv utile, paladino dei diritti dei cittadini, scopritore di truffe e raggiri ai danni del consumatore con programmi-denuncia come “Diogene” e “Mi manda Lubrano”. Negli anni Novanta Antonio Lubrano è stato uno dei volti simbolo della terza rete e in generale della televisione al servizio del telespettatore. Poi, da un giorno all’altro, è pressoché sparito. Di punto in bianco. Rimpiazzato da Piero Marrazzo alla guida del programma nel quale il pubblico più l’identificava, che per l’occasione è stato rinominato “Mi manda Raitre” e continua ad andare in onda con un successo che sembra non conoscere declino, per un paio di anni il giornalista napoletano è passato a Tmc, dove ha ricoperto la carica di direttore del notiziario e ha dato vita al primo telegiornale di servizio, “Candido”. Al suo rientro a viale Mazzini l’uomo che per sette anni, dal 1990 al 1997, ha regalato al terzo canale Rai ascolti ben al di sopra della media di rete non ha però più ricevuto offerte all’altezza dei suoi meriti. Si è anzi dovuto accontentare di spazi secondari e poco visibili, come la seconda serata estiva che per anni ha ospitato le presentazioni degli spettacoli lirici del format culturale “All’opera!”, da lui stesso ideato. Ma ora sembra finalmente arrivato il momento della rentrée in un programma di primo piano. Secondo indiscrezioni, il buon Lubrano sarebbe stato reclutato per entrare nel cast di “Mattina in famiglia”, la trasmissione di Raidue in onda il sabato e la domenica nelle prime ore del mattino, condotta nella passata edizione da Livia Azzariti, Adriana Volpe e Dario Laruffa, che ripartirà il 17 settembre con una nuova formula più leggera rispetto a quella sperimentata fin d’ora. Stando a queste voci, Lubrano dovrebbe condividere con la Azzariti – che ha già affiancato nel 2002 ad “Uno mattina sabato e domenica” - uno spazio dedicato all’intrattenimento e ai giochi, mentre all’altra coppia di conduttori – formata probabilmente dai riconfermati Adriana Volpe e Dario Laruffa, ma si fa anche il nome di Tiberio Timperi – sarebbero affidate le rubriche più serie. A questo punto “la domanda nasce spontanea”, per citare la frase che l’ha reso celebre: saprà l’implacabile e incorruttibile difensore civico trasformarsi in uno svolazzante conduttore modello Fabrizio Frizzi o Luca Giurato? Sarà capace di stamparsi sulle labbra quel sorriso vacuo che nelle mattine del week-end serve al telespettatore da palliativo per distrarsi dai mille crucci della settimana? E, soprattutto, sarà in grado di gestire inutili giochi e trattare argomenti frivoli così lontani dal suo stile serio e compassato? Le risposte le avremo solo a settembre, quando “Mattina in famiglia” prenderà il via. Ma da Lubrano, tutto sommato, qualche sorpresa possiamo aspettarcela. Basti pensare al suo “All’opera!”, in apertura del quale ha sempre raccontato aneddoti, curiosità e pettegolezzi sul titolo del melodramma di turno o sulla vita del suo autore, muovendosi perfino tra gli interpreti in costume, grazie agli effetti speciali, come Piero Angela in “Superquark”. E poi Lubrano ha già partecipato a “Uno mattina”, sia nella versione “feriale” che in quella “festiva”, e, in fondo, tra il contenitore mattutino quotidiano del primo canale e quello del fine settimana su Raidue non è che ci sia poi così tanta differenza...

9 marzo 2007
Le ragazze di Pratolini. La fiction con Martina Stella sfida Nassirya

Un grande romanzo del Novecento da una parte, una tragedia del nostro passato più recente dall’altra. Si infiamma la guerra a suon di fiction tra Mediaset e Rai, che dopo essersi scontrate lunedì e martedì scorsi schierando l’una il mélo “Donne sbagliate” e l’altra il peplum “Pompei” (battaglia vinta nettamente dal kolossal di Raiuno con il 25,7% contro il 20,5% del competitor), tornano a sfidarsi il 12 e 13 marzo con “Le ragazze di San Frediano”, produzione Rizzoli Audiovisivi tratta dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini, contro l’attesissima “Nassirya” della TaoDue di Pietro Valsecchi. «Forse il pubblico amerebbe non essere costretto a dover scegliere», ammette il direttore di RaiFiction Agostino Saccà, «per me è un errore controprogrammare fiction con fiction e un rischio cui sottoponiamo questo comparto narrativo su cui si basa la forza della tv generalista. Ma noi non credo che abbiamo responsabilità su questo. E comunque il nostro prodotto è più femminile, l’altro è più maschile». E in effetti la miniserie tratta dal libro di Pratolini sembra destinata soprattutto alle donne visto che ha per protagoniste quattro ragazze, interpretate da Vittoria Puccini, Martina Stella, Chiara Conti e Camilla Filippi, che nell’immediato dopoguerra ordiscono una clamorosa beffa ai danni di un dongiovanni impenitente - un inedito Giampaolo Morelli che parla fiorentino - reo di averle illuse tutte con il suo gioco seduttivo, in un’atmosfera giocosa e, per usare le parole di Saccà, «ciarliera, che in alcuni momenti ricorda il Goldoni della “Locandiera”». Un racconto popolare, dunque, che il regista Vittorio Sindoni ha trattato con leggerezza esaltando soprattutto i sentimenti, la gioia e la voglia di ricominciare a vivere che hanno caratterizzato la rinascita del paese sul finire degli anni Quaranta. Una fiction di tutt’altra pasta, insomma, rispetto a quella fortemente drammatica e di stretta attualità che propone in contemporanea Canale 5, basata su un tema che – azzarda qualcuno – forse sarebbe stato dovere della Rai, in quanto servizio pubblico, trattare per prima. «Abbiamo avuto diverse proposte di fare una miniserie su Nassirya», si difende Saccà, «ma io d’istinto ho detto di no, anche se poi all’istinto è seguita la riflessione. Ho avuto una sorta di pudore, di freno, come in tutte le storie cariche ancora della realtà e della violenza del conflitto, perché il materiale è ancora caldissimo, incandescente, è un materiale tragico che deve depositarsi prima nella memoria, nei nervi dei protagonisti, di quelli che sono sopravvissuti e delle famiglie delle vittime». Più che una fiction, però, la Rai avrebbe casomai realizzato una docu-fiction, «un genere che noi usiamo poco ma che si presta a raccontare la realtà prendendo un po’ le distanze, mescolando in maniera intelligente e curata il documentario con il racconto. Nassirya può essere una splendida docu-fiction, ma tra quattro o cinque anni». Cosa preferirà il pubblico televisivo, la commedia o il dramma? La letteratura o l’attualità? All’Auditel l’ardua sentenza.

26 febbraio 2010
Anti-Sanremo. Filiberto batte Scanu al Festival delle parodie

La polemica sull’introduzione dei dialetti, l’esclusione di Morgan, i fischi dell’orchestra, i sospetti sul televoto. Oltre agli ascolti, del Festival di Sanremo 2010 verrà ricordato soprattutto questo. Ma della 60ma edizione della kermesse rimarranno anche gli sfottò. Dissacranti, divertenti, a volte un po’ grossolani, sono un classico: l’anno scorso “Sincerità” venne trasformata dalla Banda Osiris in “Senilità” («Senilità/con semolino e mele cotte/col pannolone per la notte/sognando nuda la Carrà») e dai GemBoy in “Fatalità” («Fatalità/morire in fondo è così semplice/basta schiantarsi contro un salice/e la tua vita finirà»), mentre sono stati in parecchi a fare il verso a “Luca era gay” di Povia, a volte con strofe decisamente spinte (che vi lasciamo solo immaginare). La canzone più parodiata di Sanremo 2010 è, almeno finora, “Italia amore mio”. A parte l’interpretazione che ne ha dato Pierferdinando Casini ai microfoni di “Un giorno da pecora” su Radio 2, che pure non voleva essere una caricatura, il brano è stato storpiato ad esempio nel programma di Radio Deejay “Ciao belli”: «Io credo che a questo Sanremo/era meglio se venivo da solo/ma chi me l’ha fatto fare/a portare pure il coro», faceva il finto Pupo, «sentivo fischiare più forte/ tutta l’Italia intera/c’eran solo due sfigati/ che sventolavano la bandiera», continuava il principe, mentre Canonici concludeva: “sì, stasera sono qui/e mi sputtano anch’io/e ce ne andiamo in trio». Anche Elio e le Storie Tese, a “Parla con me”su Raitre, hanno dato la loro personalissima interpretazione della canzone, con uno pseudo Emanuele Filiberto che cantava «ricordo quand’ero bambino/viaggiavo con l’elicottéro/se il mio bisnonno piccolino/sapesse che son ballerino./E non potevo ritornare/ anche se non ho fatto niente/ io non volevo lavorare/e infatti non ho fatto niente». E c’è perfino una versione in dialetto veneto, del triestino Riki Malva, che fa riferimento al ripescaggio («Adesso ve dimostro a tutti/ che posso far quel che me ciava/[...] butado fora per la porta/ ma son torna’ per la finestra») e si lamenta «sì, Italia amore mio/la Rai noi la paghemo/per veder sto schifio/sì, Italia come mai/paghemo ancora oggi/el canone Rai». “Riveduta e corretta”da Elio e le Storie Tese anche la canzone con cui Valerio Scanu ha vinto il Festival. Già la Clerici aveva fatto notare che «vengono i reumatismi» a voler seguire il suggerimento di far l’amore «in tutti i laghi»; «e/ tutte le volte che/ mi tuffo dentro le acque gelide/per far l’amore/ io mi domando perché non possiamo farlo dentro casa», canta dunque Elio, sottolineando che «far l’amore in tutti i modi/ in tutti i luoghi/ in tutti i laghi/ in tutto il mondo è complicato/ il pistolino è surgelato». Sono ancora gli autori di “Ciao belli” a fare il verso a “Il linguaggio della resa”, “La cometa di Halley” e “La verità”. La parodia del brano vincitore tra i giovani, dell’ex concorrente di “X-Factor” Tony Maiello, mette in evidenza il contributo dato dai talent show alla gara: «Tutto “X-Factor” è a Sanremo/ tutti quanti stanno nei big/ Noemi, Marco e c’era Morgan/ ci hanno messo pure quello di “Amici”». Infine, il brano di Povia è diventato una lettera indirizzata non ai genitori della Englaro ma ai propri: «Padre/vuoi sapere chi m’ispira/ a scrivere ‘ste canzoni/ incentrate sulla sfiga/ sono i tg e i notiziari/[...] Mamma/ io non riesco più a fermarmi/ parlo solo di tragedie enormi/ vorrei parlare di orsetti e fiori/ ma ‘sto Sanremo manda in depressione». Fortuna che ci sono le parodie, a farci sorridere un po’.

22 giugno 2011
Il fenomeno. I figli di Derrik conquistano la tv

Se le serie americane stanno vivendo un periodo difficile, come abbiamo già sottolineato, quelle tedesche non sembrano conoscere crisi, a giudicare da come stanno prendendo piede sulle nostre reti tv. Anche nei palinsesti estivi se ne trovano davvero tante. Sono soprattutto – ma non solo – polizieschi, a cominciare dal primo, grande prodotto d'esportazione realizzato dalla Germania, all'epoca ancora divisa, “L'ispettore Derrick”: i nostalgici possono rivedere le indagini del poliziotto televisivo europeo più longevo – con 281 episodi, girati tra il 1974 al 1998, l'attore Horst Tappert si è conquistato un posto nel Guinness dei Primati – il sabato e la domenica alle 8.10 su FoxCrime. C'è poi il cane “Rex”, che troviamo su Rai1 protagonista sia della serie originale con Tobias Moretti (in replica dal lunedì al venerdì alle 18), sia dello spin-off italiano, con il celebre commissario a quattro zampe affiancato da Kaspar Capparoni, in prima tv il martedì alle 21.10. Doppia collocazione per gli agenti della stradale di “Squadra Speciale Cobra 11”, su Rai2 il mercoledì in prime time e nel weekend in fascia preserale, e anche per “Siska”, l'erede proprio di “Derrick”, su FoxCrime dal lunedì al venerdì alle 6.50 e su Rete4 nell'access prime time del sabato. Sempre indagini, ma con un inedito stile action, sono alla base del telefilm “Lasko”, la cui seconda stagione va in onda il mercoledì alle 21.50 sulla seconda rete Rai: l'attore Mathis Landwehr interpreta infatti un monaco esperto di arti marziali, con un passato nell'esercito, che collabora con le forze dell'ordine nei casi in cui è implicato l'ambiente ecclesiastico. “Finalmente arriva Kalle”, su Rete4 dal lunedì al giovedì alle 15, unisce invece poliziesco e commedia raccontando le avventure di un cagnolino di razza Parson Russel Terrier, Kalle appunto, e la sua proprietaria Pia, che di mestiere fa la poliziotta. Per rimanere in tema di animali, nella mattina di Rai2 vanno forte “Il nostro amico Charly”, che ha per protagonista uno scimpanzé combinaguai, e soprattutto il suo spin-off - in prima visione italiana - “La nostra amica Robbie”, dove la Robbie del titolo è un leone marino, che sta diventando un piccolo fenomeno con una media del 9% di share ed episodi che, negli ultimi giorni, sono arrivati a toccare l'11% e oltre 1.200.000 telespettatori. Si sorride anche con una serie ormai storica come “Un ciclone in convento”, che narra il braccio di ferro tra la battagliera suor Lotte e il sindaco di Kaltenthal, deciso a trasformare l'antico convento in un moderno centro congressi, in replica – in attesa della nona e decima stagione ancora inedite in Italia - dal lunedì al venerdì alle 10.50 su Rai1. Tutt'altra atmosfera per “La casa del guardaboschi” (dal lunedì al venerdì alle 11.50 su Rai1), sulle vicissitudini di un agente impegnato nella salvaguardia della foresta bavarese, “La nave dei sogni (dal lunedì al venerdì alle 14.55 su Rai1), versione made in Germany della celebre “Love Boat” americana, e i film-tv tratti dai libri di Rosamunde Pilcher (dal lunedì al venerdì alle 15.25 su FoxLife). Ma i tedeschi, da qualche tempo a questa parte, hanno esportato anche le soap opera: terminata “Alisa-Segui il tuo cuore”, uno dei titoli di punta di La5, agli amanti del genere restano per tutta l'estate gli appuntamenti quotidiani con “Julia-La strada per la felicità” (su Rai3 alle 13.10) e “Tempesta d'amore” (su Rete4 alle 19.35). La tv teutonica è insomma partita all'attacco del pubblico italiano: riuscirà ad intaccare la leadership della serialità a stelle e strisce?

29 dicembre 2006
I signori delle fiction. Chi c'è dietro le quinte dei kolossal televisivi

Valsecchi, Bixio, Tarallo, Bernabei, Degli Esposti, Rizzoli. Sono nomi che probabilmente dicono poco al semplice telespettatore, eppure questi sei uomini sono i veri “signori della fiction”, più determinanti ancora di attori e registi per la riuscita di una serie tv: sono infatti alcuni tra i più noti e prolifici produttori televisivi, ognuno con uno stile molto riconoscibile e una precisa linea editoriale. Sono ad esempio quasi tutte legate all’attualità e a fatti del nostro recente passato, a parte le favole natalizie dedicate alla famiglia (“Il mio amico Babbo Natale” 1 e 2) e due progetti ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale, le produzioni della TaoDueFilm di Pietro Valsecchi, che per Mediaset, con cui lavora in esclusiva, ha realizzato serie (“Distretto di polizia”, “R.I.S. Delitti imperfetti”) e miniserie (“Ultimo”, “Uno bianca”, “Paolo Borsellino”, “Attacco allo Stato” e, tra poco, ”Nassirya, per non dimenticare”) piene di ritmo, azione e con una consolidata squadra di attori - Raoul Bova, Claudia Pandolfi, Giorgio Tirabassi, Lorenzo Flaherty - riproposta di film in film, con la convinzione che squadra che vince non si cambia. Di tutt’altro stampo le fiction della Publispei di Carlo Bixio, perlopiù di lunga serialità, che si rifanno alla commedia all’italiana e sono destinate a tutta la famiglia: da “Un medico in famiglia” (di cui vedremo a breve la quinta stagione) a “I Cesaroni”, da “Lo zio d'America” alla miniserie “Un posto tranquillo”, fino alla sit-com “Sette vite”, prossimamente su Raidue, che in cinquanta puntate racconta i cambiamenti della nostra società attraverso gli occhi di un uomo rimasto per vent’anni in coma. Un prodotto, quest'ultimo, sul quale la Publispei punta molto anche se il grande progetto di Bixio è una docu-fiction sulla storia dei Papi, che dovrebbe consistere in 40 puntate per la Rai. E se la Janus International di Alberto Tarallo è specializzata in melodrammi e saghe familiari (“I colori della vita”, “Caterina e le sue figlie”, “L'onore e il rispetto”), nelle fiction di ambientazione storica si sono lanciate diverse case di produzione. Prima fra tutte la Lux Vide dell'ex direttore generale della Rai Ettore Bernabei, ora affiancato dai figli Luca e Matilde, che dopo essersi imposta con grandi kolossal religiosi (“La Bibbia”, venti film tratti dall'Antico e Nuovo Testamento, “Madre Teresa”, “Padre Pio”), sta portando avanti parallelamente il progetto “Imperium”, ovvero l’epopea di Roma in sei miniserie (prossimamente in onda la terza, “Pompei”), e “XX secolo”, sui personaggi e avvenimenti significativi del Novecento (“Meucci”, “Papa Giovanni”, ”Edda”, “Soraya”, “Sacco e Vanzetti”). Alla storia degli ultimi cento anni attingono volentieri anche la Palomar di Carlo Degli Esposti, che oltre al seguitissimo “Il commissario Montalbano”-di cui pare siano previsti altri quattro episodi, in onda nel 2008 -ha prodotto tra l’altro ”Perlasca-Un eroe italiano”, ”Cefalonia” e “Il tunnel della libertà” (quest’ultimo concepito come primo capitolo di una trilogia dedicata proprio alla libertà che prevede altri due film rispettivamente sul ’56 di Budapest e sulla Primavera di Praga), e la Rizzoli Audiovisivi, che negli ultimi anni ha realizzato “Al di là delle frontiere” sulla Resistenza, “Il cuore nel pozzo” sul massacro delle foibe e “Mafalda di Savoia” sulla tragica storia della secondogenita di Vittorio Emanuele III morta in un campo di concentramento. Ma la vera specialità della casa di produzione fondata e presieduta da Angelo Rizzoli, nipote dell’omonimo grande editore, è - e non poteva essere altrimenti - la letteratura: dopo aver tratto miniserie da “Piccolo mondo antico”, “Cuore”, “Incompreso” e “I ragazzi della via Pal”, ha ora in cantiere la collana “I grandi romanzi italiani del Novecento”, dieci trasposizioni di opere immortali del secolo scorso a partire da “Il bell'Antonio” di Vitaliano Brancati e “La provinciale” di Alberto Moravia.

16 marzo 2007
L'arma della fiction. Poliziotti più amati grazie alle serie tivù

Fiction e forze dell’ordine, un binomio vincente. Dai vecchi sceneggiati in bianco e nero alle moderne serie tv, il genere poliziesco sul piccolo schermo non è mai tramontato. Anzi, casomai è il contrario. Da qualche tempo a questa parte sono infatti aumentate le fiction in uniforme e accanto a Polizia e Carabinieri, da sempre protagonisti di serie di successo (“Il Commissario Montalbano”, “Il Maresciallo Rocca” e “La squadra” sulla Rai, “Distretto di Polizia”, “Carabinieri” e “R.I.S.-Delitti imperfetti” su Mediaset), sono arrivati anche Guardia di Finanza (“Il Capitano”, Raidue), Guardia Costiera (“Gente di mare”, Raiuno) e Vigili del Fuoco (“Codice rosso”, Canale 5). Tutte – o quasi – premiate da ascolti altissimi, che nel caso di “Montalbano” hanno superato addirittura il 30% di share. Ed è proprio per questo che RaiFiction e la Direzione Palinsesto Tv e Marketing della Rai hanno commissionato all’Osservatorio sulla Fiction Italiana una ricerca dal titolo “L’immagine delle istituzioni di sicurezza nella fiction”, finalizzata, come spiega Agostino Saccà, «a valutare coerenza, portata ed efficacia comunicativa delle fiction in divisa». Il risultato? Le serie poliziesche piacciono non solo al pubblico ma anche alle forze dell’ordine, che hanno storto un po’ il naso vedendo “L’ispettore Coliandro” – «un po’ di autoironia non guasta mai», si difende però l’interprete Giampaolo Morelli, che lamenta il mancato sostegno al progetto da parte della Polizia – ma hanno complessivamente gradito la rappresentazione data loro dalla tv, soprattutto da “La squadra”. «È la migliore, quella che ci rappresenta nella realtà», è stato il commento di Nicola Cavaliere, vice direttore generale della Pubblica Sicurezza nonché Direttore della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato, che ha lanciato una provocazione: «Per cancellare i pettegolezzi che corrono sulla competizione e rivalità tra le diverse armi, perché non fare una fiction sulla direzione della Polizia Criminale dove lavoriamo in pieno accordo e sintonia?». In attesa di raccogliere l’invito, Agostino Saccà ha colto l’occasione per annunciare i prossimi progetti in divisa di RaiFiction - “Caccia segreta” sull’intelligence, già in produzione, “Cacciatori di Calabria” sull’omonimo corpo specializzato e “Bene versus male” sulla Polizia – anticipando che ci saranno «meno mélo e più investigazione pura». «Se c’era un neo finora nelle fiction poliziesche della Rai era proprio il melò», ha aggiunto la sociologa Milly Buonanno, direttore dell’Osservatorio sulla Fiction Italiana, «quindi va bene l’arrivo di un più sano realismo, il che non significa annullare la familiarizzazione e l’umanizzazione delle istituzioni, tratto distintivo delle fiction italiane in uniforme». Le quali, senza bisogno di modifiche, hanno comunque già varcato i confini nazionali: “Gente di mare” sta infatti andando in onda in Francia, mentre “Il maresciallo Rocca” – e tra poco anche “Il Commissario Montalbano” - ha addirittura conquistato la Cina. Scusate se è poco.

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